Silvio Cattarina parla dei ragazzi ospitati in comunità (e non solo loro): hanno bisogno di incontrare persone che vogliono camminare con loro
Silvio Cattarina Pubblicato 11 Aprile 2025
Riportiamo alcuni stralci dell’intervento di Silvio Cattarina al convegno “Disagio psichico e post-modernità”, Seveso 28-30 marzo 2025 (ndr).
La persona desidera – sempre, comunque, in ogni azione, in ogni luogo dove è chiamato a vivere – incontrare una grande cosa, poter vivere un’esperienza di bene, di accoglienza davvero grande, inaspettata, eccezionale. A maggior ragione se la persona è un ragazzo!
L’aspettativa, l’attesa, la domanda che ha in cuore è sicuramente questa: quella di poter fare un incontro che veramente gli stravolga la vita, il cuore e la mente: questa è la domanda. Ma che offerta trova? Nelle famiglie, a scuola, in parrocchia, nei vari ambiti che situazione, che vita trova un ragazzo, nel nostro caso? Nelle nostre comunità, nei nostri centri di accoglienza?
Ai miei collaboratori, ai giovani educatori, dico sempre, per ripeterlo anche a me: se toccasse a te, oggi, entrare in comunità, come vorresti essere accolto? Che parole desidereresti ricevere, da che tipo di persona vorresti essere preso in carica? Vorresti conoscere il motivo per cui chi ti accoglie è lì a svolgere il suo lavoro? Vorresti sapere lo scopo, il traguardo che ha in mente per te, per la tua persona, per il tuo destino?
Penso sia giunto il tempo di affermare che non tutti sono adatti per fare il nostro lavoro. Non vi si può accedere “per concorso”. Lo stesso vale per la scuola, l’università, la sanità, l’educazione in genere. Si studi – si trovi, si sperimenti – un sistema di selezione diverso, più adeguato e consono all’altezza del compito, degno di un’arte, di un’opera d’arte così sensibile, sapienziale come quella educativa e terapeutica.
Occorre avere chiaro, consapevolezza, contezza si dice oggi, del motivo, della ragione per cui le persone decidono di svolgere un lavoro così particolare e speciale. Non si può dare per scontato. Inoltre, occorre avere consapevolezza del cammino e del traguardo che vogliamo raggiungere con i ragazzi. Dico spesso loro: “Non siamo qui per la droga, per la depressione, per l’anoressia ecc. C’è altro, c’è molto di più! Vogliamo cercarlo, conoscerlo insieme”.
Occorre sapere, avere consapevolezza di chi e cosa è la persona, cosa è la vita, la vita e la morte… un’idea di cosa è il dolore, l’amore, la terra e il Cielo, l’uomo e la donna, cosa vuol dire studiare, lavorare, metter su famiglia… un po’ di a-b-c, un po’ di basi ci vogliono per stare insieme, per riuscire a guardarsi negli occhi! I ragazzi portano con sé mille e mille domande intorno a queste vicende esistenziali, intorno al bene e al male. Lasciarli senza risposta, senza un’ipotesi di lavoro, forse è un tradimento ancora più cocente rispetto ai tanti che già hanno patito nella vita.
Il nostro deve essere un lavoro, una professione, un tentativo alto, coraggioso, nobile, pubblico, bello, elegante, ammiratissimo, un’eccellenza dell’esperienza di cura, di educazione, di risocializzazione.
Non possiamo ridurci – o accettare di essere ridotti – a tenere i ragazzi a scaldare il posto, ad aspettare che faccia notte! (come succede in tanti luoghi di cura. Purtroppo a tutti sono note le infinite ore di solitudine, davanti alla televisione, o al computer, al tablet, alla musica, al telefonino, infinite ore stesi sui letti delle proprie camerette che i pazienti ricoverati in certe cliniche debbono sopportare, tutto il giorno a non far niente, a girare i pollici).
Facciamo questo lavoro perché il nostro cuore – e quello dei ragazzi, ma prima il nostro – si spacchi, abbia a spaccarsi, a rompersi e, anche, per imparare, per incontrare una misura nuova, una misura diversa con cui essere, con cui vivere.
Non può essere un assistenzialismo, ma un incontro, un avvenimento. Per capire, per stare davanti a tante situazioni occorre un grande sacrificio, una forte lunga lotta. No come tanti vorrebbero: applicare una tecnicalità, un algoritmo – “adesso arriverà l’Intelligenza Artificiale” – senza coinvolgersi. Nelle università insegnano a non coinvolgersi affettivamente, emotivamente!
Quanto è bello l’episodio occorso a Madre Teresa di Calcutta. Un giornalista che cercava di far polemica le chiese: “Madre, cosa bisogna fare per i poveri?” Ella, semplicemente rispose: “Di più!”. Il giornalista, piccato e risentito, incalzò: “Di più quanto?”, “Finché fa male!”. Questo è il grande tema della motivazione.
Quando un rapporto si instaura, quando un ragazzo entra in comunità, quando inizia un nuovo anno scolastico, quando una persona entra in ospedale, da parte di chi accoglie – dell’adulto, dell’insegnante, del medico, dell’infermiere – l’approccio e il rapporto non può e non deve iniziare con il sospetto, con il dubbio, con la sfiducia, con la distanza, con la paura in volto e nelle mani, col timore che andrà male.
Non sia così nelle nostre opere! Non partiamo dal poco, dal limite, dalla fragilità, ma dall’alto! Da una grande aspettativa, da una forte speranza, da un’attesa di successo, di tanto, di molto. Come accolgo un ragazzo quando entra in comunità? Lascio passare pochi minuti e prontamente dico: “So chi sei, come ti chiami, da dove vieni, quante ne hai combinate… piano piano affronteremo tutto, giudicheremo insieme, ma, sappi, ci tengo a dirti subito che mi attendo una grande cosa, desidero poter fare una bella esperienza di vita, di amicizia. Se saremo fatti degni e saremo capaci, desidero che possiamo essere amici per sempre”.
Nelle comunità avvengono fatti, cambiamenti impensati. Un conto sono le diagnosi che accompagnano i ragazzi, spesso così tremebonde, terrificanti, invece la convivenza, il prosieguo dell’esperienza, l’amicizia tra pari incredibilmente dimostrano tutt’altro. Infatti i ragazzi dicono: “È uno sguardo diverso che mi ha accolto, è uno sguardo che mi ha cambiato”. Cosa è questo sguardo, da dove viene, dove porta, fin dove vuole arrivare?
Noi vediamo, abbiamo sempre sperimentato che è possibile cambiare, è possibile ricominciare, ripartire; è possibile volersi bene, aiutarsi, trattarsi bene. È possibile un protagonismo del ragazzo, verso sé stesso e gli altri davvero ammirevole e contagioso.
Il tema della motivazione è particolarmente urgente e grave per i nuovi educatori, per le nuove leve che si affacciano ai nostri servizi: vogliono fare e fare tutto e subito, ma senza amore, senza capire, senza mai mettersi in discussione, pensando di saperne sempre una pagina più del libro, con supponenza.
Dico loro: siate aperti, disponibili, curiosi, desiderosi di cose nuove, di un imprevisto continuo (appunto); di una novità sempre più sorprendente, aperti e sorpresi della guarigione, dell’inaudito. Tutto questo nella realtà c’è, non lo dovete inventare voi! Al mattino quando entrate in turno vi capita mai di farlo con il sorriso sulle labbra, contenti, gioiosi? O avete una faccia peggiore dei ragazzi che avete davanti? Comprendete, vi immedesimate con la storia, con la tradizione, con il motivo vero e grande per cui quest’opera è stata voluta, è nata? Piuttosto che pensare di saper già fare, pensate quanto è più interessante guardare, ascoltare, imparare, ammirare; fare insieme, insieme ad altri, insieme! Quanto è più fecondo e fruttuoso dire e fare con le parole di chi è venuto prima di te. Altrimenti anche voi siete come i nostri ragazzi che per definire la condizione che vivono usano il verbo “farsi”, “mi faccio”. Che drammaticità! Come se volessero dire: mi creo io, mi costituisco, mi costruisco io.


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